You Are, brano d’infinito

Un brano dell’ultimo album di Pat Metheny,
il grandissimo chitarrista del Missouri, mi ha particolarmente colpito e affascinato. Perché?

Era il 6 dicembre scorso quando io ed il caro amico e grande pianista Lorenzo Definti ci scambiavamo pareri sorpresi ed entusiastici sul brano di cui mi accingo a parlare. You Are era uscito da due giorni su youTube, seconda anticipazione dell’album From This Place, previsto in uscita per Febbraio 2020.

Quella con Lorenzo è un’amicizia (non solo musicale) di lunga data, diciamo più di trenta primavere (e rispettive altre stagioni…). Ma erano anni che non rimanevamo così a bocca aperta davanti ad un brano musicale. “Il brano fa piangere…”, “da anni aspettavo una cosa così…” ed altri messaggi whatsapp più o meno dello stesso tenore.

Ho ascoltato molte volte il brano, ho anche scritto una recensione dell’album, mi sono immerso (come altre volte) nel linguaggio affascinante e a volte complicato della musica di Pat Metheny. Vi racconterei anche chi è, ma non voglio ora, cercate voi le notizie sui 50 anni di carriera, 20 Grammy Awards vinti in 12 categorie diverse e musiche composte ed eseguite per tutto il globo che hanno solcato gli ultimi decenni lasciando tracce indelebili ed altissime.

Giusto per onor di cronaca, chi ha suonato in quest’ultimo album, dal titolo From This Place e la copertina. Il resto cercatelo voi.


Pat Metheny compositore di tutti i brani, chitarra e qualche tastiera
Arrangiamenti orchestrali:
Alan Broadbent
Batteria: Antonio Sanchez
Piano: Gwilym Simcock
Orchestra: Hollywood Studio Symphony
diretta da Joel McNeely
Contrabbasso e Voce:Linda May Han Oh

Poi è successo quello che è successo, il virus, il contagio, la quarantena. E come sempre quando si passa attraverso fatti drammatici, molte cose non si possono più fare, dire, ascoltare come se nulla fosse successo. Diciamo che cambiano significato. Meglio, ne acquistano di nuovi. Ma su questo torneremo in conclusione. Ora cominciamo il viaggio.

L’abbrivio è affidato ad una sequenza di nove suoni, di durata uguale, vediamo che note sono.
SOL – FA – SOL – MI – FA – SOL – FA – SOL – FA.
Una melodia di una semplicità quasi banale, ma che già da sola suona carica di attesa. Ci si accorge che la sequenza è terminata, perché viene aggiunto un nuovo elemento. Si tratta di un DO acuto, appoggiato sul quarto successivo. Inizia un delicato movimento ritmico che ci fa capire di essere dentro un tempo di valzer lento, per non fare troppo i preziosi, se contate 1 – 2 – 3 su ogni attacco delle note della sequenza, vi accorgete della suddivisione ternaria. Ed il DO acuto è sul secondo movimento. Il terzo è vuoto.
Tempo in 3, 3 note in sequenza, successione di 9 note. Scopriremo man mano che sul 3 e sul 9 si poggia tutta la struttura del pezzo, allo stesso modo delle cattedrali costruite seguendo la sezione aurea e la magica struttura – già presente in natura – del frattale.

Terza ripetizione: il pianoforte appoggia sul battere gli accordi dell’armonia, il contrabbasso suona anche lui il DO acuto in levare.

Non possiamo qui compiere una analisi armonica approfondita, sarebbe particolarmente complicata e ci vorrebbe troppo spazio perché possa avvicinarsi ad essere completa. Senza dimenticare il fatto che voi che leggete dovreste sapere l’armonia. Basti quindi menzionare che siamo in un ambito di DO maggiore, ma estremamente sfuggente per gli accordi impiegati, che appartengono ad altri ambiti tonali.

Ad 1:00 siamo alla quarta ripetizione dell’ostinato e finalmente entra la chitarra di Pat, ma solo per ribadire il DO acuto, mentre il contrabbasso passa alle fondamentali degli accordi. Mentre delicatamente anche il batterista sfiora i piatti.

E finalmente ad 1:20 (quinta ripetizione) entra il tema. Tema tutto in levare, ma un levare fatto di sincopi delicate, di ritardi: un tema vago, ambiguo, misterioso. Solo una annotazione: l’intervallo fra la nota più grave e quella più acuta è una nona minore. 9, again.

Non temete, non voglio descrivervi le altre tredici ripetizioni dell’ostinato così dettagliatamente, vi annoierei a morte e lo so. Lo farò brevemente, solo lasciatemi accennare al fatto che il numero totale di ripetizioni del ciclo sarà 18 (2 per 9) e che il tempo metronomico del brano è 81 (9 per 9).

Riassumiamo il viaggio, che – lo ripeterò anche dopo – ognuno deve compiere più volte per cercare di entrare nella profondità di questo brano, che sempre Lorenzo – il pianista citato sopra – ha definito una Ciaccona, antica forma scandagliata anche da Bach e basata su un unico ostinato, man mano variato, accresciuto, diminuito. E proprio questo avviene nel brano: un unico monumentale crescendo, in cui l’accento non è sulla bravura virtuosistica o sull’esplosione di un assolo, ma sull’aggregazione dinamica, cui contribuisce anche l’orchestra d’archi. Una stratificazione compressa, che sembra già al massimo allo scoccare dei 3 minuti, ma che sorprendentemente cresce ancora, per altre tre ripetizioni! Riemerge il tema che era scomparso da un po’ e finalmente si raggiunge l’apice dinamico e a 4:20 si inizia la discesa, quasi rimbalzando sulla cima, e poi scendendo dolcemente. Ai 5:00 il tema si eclissa nuovamente, lasciando spazio ad un altro tema eseguito dai violoncelli, per poi andare al finale, dove si torna esattamente al punto da cui si era partiti.

Mia trascrizione delle linee essenziali del brano

Le 9 note della sequenza iniziale riappaiono, ma con la consapevolezza del viaggio che si è compiuto, tanto è vero che malinconicamente l’armonia si ferma su un MI bemolle degli archi, cercato per tutto il pezzo, che si presenta proprio negli ultimi secondi, sgomitando con il MI naturale dell’ostinato e poi andandosene scocciato e lasciando la porta aperta, a far entrare l’infinito.

Vi ho chiesto troppo? Forse sì, ne sono conscio. Eppure questo brano è così stratificato che io stesso, dopo qualche decina di ascolti, sento emergere ancora particolari nuovi. Vale forse la pena di provare a seguire quello che accade strumento per strumento – in una sorta di ascolto separato – per poi tornare ad un ascolto complessivo e riconsiderare tutti gli aspetti con coscienza maggiore.

Per me – credo si sia capito – si è trattato di una scoperta affascinante, un pezzo che mi ha assolutamente stregato, pur essendo avvezzo ad un certo linguaggio e conoscendo il percorso artistico di Pat Metheny nei minimi dettagli. Ma per tentare di fare questa esperienza occorre ascoltare, senza distrazioni, con attenzione, immergendosi nell’esperienza di farsi portare in viaggio senza conoscere la destinazione. Altrimenti – come affermava in una riuscita immagine il grande regista russo Andrej Tarkovskij – sarebbe come provare a spiegare l’arcobaleno ad un cieco.

Ma ho lanciato un amo sopra, e qualcosa ci deve restare attaccato. Riascoltare questo brano oggi, nel mezzo a questo periodo estremamente singolare, in cui tutto sembra fermo, me lo ha fatto guardare sotto una luce nuova. Tutto sembra immobile, talvolta drammaticamente immobile, perché ciò che si muove sembra essere solo la malattia e la morte. In realtà il tema dell’infinito è sempre presente. La bellezza, la solidarietà, l’amore continuano a viaggiare, anche se forse si notano meno, e saranno loro, insieme alla speranza, a riportarci a casa.

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